"La Bambina di Neve" (fiaba triste di Hawthorne)

Nel pomeriggio d'una rigida giornata d'inverno, quando il sole tornò a brillare con fredda limpidezza dopo una lunga tempesta, due bambini chiesero alla mamma il permesso di correre fuori a giocare con la neve fresca.

La maggiore tra i due era una bimba che per la sua indole dolce e modesta e perché era considerata molto bella, i genitori e gli amici di casa solevano chiamare Violetta.

Ma suo fratello era noto col nomignolo di Papavero per il colorito acceso del visetto rotondo che faceva pensare alla luce del sole e a grandi fiori vermigli.

Bisogna sapere che il padre di questi due bambini, negoziante in ferramenta, era un uomo ottimo ma straordinariamente prosaico: su tutto quello che si presentava alla sua mente aveva l'abitudine tetragona di formarsi sempre l'opinione del cosiddetto buon senso. Con un cuore tenero come quasi ogni uomo, egli aveva una testa dura e impenetrabile e perciò, forse, vuota come una delle pentole di ferro che vendeva.

Nel carattere della madre, invece, vi era una vena di poesia, un tocco di bellezza ultraterrena: fiore delicato e rugiadoso sopravvissuto alla sua immaginosa giovinezza e che manteneva ancor vivo fra le realtà monotone del matrimonio e della maternità.

Violetta e Papavero, dunque, supplicarono la mamma di lasciarli correre fuori a giocare con la neve fresca; poiché, se cadendo giù dal cielo grigio era sembrata tanto lugubre e cupa, appariva così allegra ora che il sole la illuminava.

I due bambini abitavano in una città e per giocare non avevano altro terreno che un piccolo giardino davanti alla casa: lo separava dalla strada un muro bianco; un pero e due o tre susini lo ombreggiavano e alcuni cespi di rose crescevano proprio davanti alla finestra del salotto. Ma in quel tempo alberi e piante erano spogli e la neve leggera avviluppava i rami, formando così una specie di fogliamene invernale con un ghiacciolo pendulato qua e là a guisa di frutto.

"Sì, Violetta e mio piccolo Papavero", disse la madre affettuosa, "potete andare a giocare con la neve fresca."

La buona signora avvolse i suoi due tesori in corpetti di lana e giacche imbottite, mise loro una sciarpa, infilò ghette a righe in ogni paio di piccole gambe e grossi guanti di lana alle mani e diede loro un bacio per uno, quasi un talismano per tenere a distanza il Signor Gelo.

E i due bambini scapparono fuori di casa con una corsa e un salto che li portò subito nel bel mezzo di un gran mucchio di neve, da cui Violetta sbucò simile a un fringuello, mentre il piccolo Papavero ne uscì annaspando, col visetto rotondo tutto in fiamme.

Come si divertirono!

A guardarli scherzare nel giardino invernale, si sarebbe pensato che l'oscura e spietata tempesta fosse stata inviata solo per offrire a Violetta e Papavero un nuovo modo di divertirsi; e che essi, a loro volta, fossero creati, come gli uccelli della neve, per godere solo della tempesta e del candido manto che essa distende sulla terra.

Infine, quando si furono imbiancati a vicenda con manate di neve, Violetta, dopo aver riso di gusto per l'aspetto del piccolo Papavero, ebbe un'idea nuova.

"Sembri proprio un fantoccio di neve, Papavero", disse, "se però le tue guance non fossero così rosse. E mi fai venire un'idea! Facciamo un fantoccio con la neve: che rappresenti una bambina, e sarà la nostra sorella e correrà per il giardino e giocherà tutto l'inverno con noi. Non sarebbe carino?"

"Oh sì!", esclamò Papavero, parlando più distintamente che poteva, poiché era ancora piccolo.

"Sarà carino! E mamma la vedrà!"

"Sì", rispose Violetta. "Mamma vedrà la nuova bambina. Ma non dovrà farla entrare nel salotto caldo; perché, sai, alla nostra sorellina di neve il caldo non piacerà."

E immediatamente i bambini si accinsero alla grande impresa di fare un fantoccio di neve che corresse per il giardino; mentre la loro mamma, che sedeva presso la finestra e aveva udito in parte il loro discorso, non poté fare a meno di sorridere della serietà con cui si misero al lavoro.

Sembrava che credessero veramente di non trovare alcuna difficoltà nel fabbricare con la neve una bambina viva.

E, a dire il vero, se mai sia possibile operare miracoli, sarà mettendoci al lavoro proprio con quella semplicità e quella fede con cui Violetta e Papavero si accingevano a compierne uno, senza neanche sospettare che si trattasse di un miracolo. 

Così pensava la madre; e pensava anche che la neve fresca, appena caduta dal cielo, sarebbe un eccellente materiale per creare esseri nuovi, se non fosse tanto fredda.


Il vedere all'opera quei due cari frugoli pieni di vita era una vera delizia! E poi, meravigliava davvero osservare con quanta accortezza e maestria se la cavavano nel loro lavoro.

Violetta aveva assunto la direzione e diceva a Papavero quel che doveva fare, mentre con le sue dita delicate modellava tutte le parti più difficili del fantoccio di neve. In realtà, non sembrava vero che la figura fosse modellata dai bambini, ma anzi che si formasse da sé sotto le loro mani, mentre essi vi giocavano intorno cinguettando. La madre ne fu molto sorpresa; e la sua sorpresa cresceva a mano a mano che seguiva il lavoro.

"Che bambini eccezionali sono i miei!", pensava, sorridendo d'orgoglio materno e sorridendo un po' anche di se stessa per essere tanto fiera di loro.


"Papavero, Papavero!", gridò Violetta al fratello, che era andato in un altro punto del giardino, "portami un po' di quella neve fresca laggiù in quel cantuccio più lontano, dove non l'abbiamo calpestata. Mi occorre per modellare il petto della nostra sorellina di neve. Sai: per il petto bisogna che sia purissima, proprio come è venuta giù dal cielo."

"Eccola, Violetta!", rispose Papavero, col suo tono brusco, ma pur sempre così dolce, mentre si avvicinava annaspando tra i mucchi di neve in parte calpestati.

"Ecco la neve per il suo pettuccio. Oh, Violetta! Come comincia a diventare bella!"

"Sì", fece Violetta, pensosa e calma; "la nostra sorellina di neve è molto carina. Non sapevo che saremmo riusciti a fare una bimba così carina."

Ascoltando i loro discorsi, la madre pensava che sarebbe stato proprio giusto e molto bello che fate o angioletti fossero scesi dal paradiso a giocare, invisibili, con i suoi due tesorini per aiutarli a fare il loro fantoccio di neve, dandogli le fattezze dell'infanzia celeste!

Violetta e Papavero non si sarebbero accorti dei loro immortali compagni di gioco: solo avrebbero veduto la figura divenire bellissima a mano a mano che essi vi lavoravano e l'avrebbero creduta tutta opera loro.

"Se mai i bambini mortali abbiano meritato simili compagni di gioco, sono i miei bambini!", si disse la madre; e di nuovo sorrise del suo orgoglio materno.

Ma l'idea si impossessò ugualmente della sua fantasia, e di quando in quando dava uno sguardo fuori dalla finestra, quasi immaginando di vedere bimbi del paradiso, dai riccioli d'oro, giocare con la sua Violetta e col suo Papavero.

Vi fu, per qualche momento, un mormorio indistinto delle due voci infantili.

"Papavero, Papavero!", gridò Violetta. "Portami quelle leggere ghirlande di neve che si sono posate sui rami più bassi del pero. Mi occorrono per fare i riccioli della nostra sorellina di neve!"

"Eccoli, Violetta!", rispose il bambino. "Com'è carina!"

"Non è un amore?", disse Violetta con tono soddisfatto; "e adesso ci vuole qualche pezzetto di ghiaccio lucido per fare gli occhi scintillanti. Ancora non è finita. Faremo vedere alla mamma com'è bella; ma papà dirà "Sciocchezze! Venite dentro che fa freddo."

"Chiamiamo la mamma perché si affacci", disse Papavero, e si mise a gridare allegramente: "Mamma! Mamma! Affacciati e guarda che bella bambina stiamo facendo!"

La madre posò il lavoro per un momento e si affacciò alla finestra.

Ma accadde che il sole - era uno dei giorni più corti dell'anno - era sceso così presso all'orizzonte, che la sua luce occidua giunse obliquamente agli occhi della signora.

Ella ne rimase abbagliata e non poté distinguere bene quel che si trovava nel giardino.

Pure, fra tutto il vivo, accecante barbaglio del sole e della neve fresca, ella vide una figurina bianca che sembrava imitare a meraviglia le fattezze umane.

E vide Violetta e Papavero, li vide ancora al lavoro: Papavero che portava altra neve e Violetta che l'applicava alla figura con tutta l'arte di uno scultore che aggiunge creta al suo modello; la madre pensò tra sé che mai vi era stato prima un fantoccio foggiato con tanta abilità.

Tornò al suo lavoro e si affrettò quanto più possibile: il crepuscolo era vicino e il vestito di Papavero non era ancora finito.

Anche i bambini in giardino continuavano a lavorare attivamente; la madre si divertiva ad osservare come la loro piccola fantasia fosse stata presa dal lavoro e ne fosse trascinata: sembravano credere veramente che la bambina di neve avrebbe corso per il giardino e giocato con loro.

"Che compagna carina che avremo per giocarci insieme tutto l'inverno! Non le vorrai molto bene, Papavero?", disse Violetta.

"Oh sì. E l'abbraccerò stretta, e si siederà vicino a me e berrà un po' del mio latte caldo!"

"Oh no, Papavero!", rispose Violetta con saggia gravità. "Il latte caldo non farebbe bene alla nostra sorellina di neve. I bambini di neve come lei non mangiano che ghiaccioli. No, no, Papavero, non bisogna darle nulla di caldo da bere."

Vi fu un breve intervallo di silenzio poiché Papavero, le cui gambette non si stancavano mai, era andato di nuovo in pellegrinaggio all'altro capo del giardino.

Ad un tratto Violetta gridò tutta allegra: "Guarda, Papavero! Vieni presto! Un riflesso di quella nuvola rosa le ha illuminato le guance, e ora non va più via! Non è bello?"

"Sì, è bel-lo", rispose Papavero, sillabando la parola con aria riflessiva. "Oh Violetta, ma guarda i capelli! Sono come l'oro!"

"Oh cero", fece Violetta tranquillamente, come se fosse una cosa naturale.

"Sai, quel colore viene dalle nuvole dorate che si vedono lassù nel cielo. è quasi finito, ormai. Ma bisogna farle le labbra rosse, più rosse delle guance. Forse, Papavero, diventeranno rosse se noi due le baciamo!"

E la madre udì due piccoli schiocchi vivaci, come se i suoi bambini stessero baciando il fantoccio di neve sulle labbra gelide.

Ma parve che questo non rendesse le labbra della sorellina di neve abbastanza rosse e Violetta propose d'invitarla a baciare a sua volta la guancia vermiglia di Papavero.

"Su, sorellina di neve, dammi un bacio", esclamò Papavero.

"Ecco! ti ha baciato", concluse Violetta, "e ora le sue labbra sono proprio rosse. Ed è anche un po' più colorita!"

"Oh, che bacio freddo!", esclamò Papavero.

Proprio allora una folata del puro vento di ponente passò sul giardino facendo tremare le finestre del salotto e diede un tale senso di gelido inverno che la madre fu sul punto di battere il vetro col dito in cui era infilato il ditale per ordinare ai bambini di rientrare in casa, quando entrambi la chiamarono; sembravano rallegrarsi di un qualche avvenimento che si fosse verificato allora, ma su cui avevano contato fin dal principio.

"Mamma, mamma! Abbiamo finito la nostra sorellina di neve e ora corre per il giardino con noi!"

"Che piccini pieni di fantasia sono i miei bambini!", pensò la madre mentre metteva gli ultimi punti all'abito di Papavero.

"E, quel che è più strano, mi fanno quasi diventare una bambina come loro! Per poco, non posso fare a meno di credere che il fantoccio di neve sia animato!"

Il sole era ormai scomparso dal cielo, lasciando però dietro a sé un ricco retaggio del suo splendore tra quelle nuvole purpuree e dorate che rendono così sontuosi i tramonti invernali.

La buona signora poté guardare nel giardino e vedervi Violetta e Papavero. Ma cosa vide oltre loro? Ebbene, se mi credete, vi era la figuretta esile di una bambina, tutta vestita di bianco, con le guance rosee e i riccioli color d'oro che giocava per il giardino con i due bimbi.

La madre pensò che di certo doveva trattarsi della figlia di uno dei vicini: vedendo Violetta e Papavero in giardino, la piccina doveva aver attraversato la strada per giocare con loro.

E la buona signora andò alla porta di casa, pensando di invitare la piccola nel suo tiepido salotto, poiché calato ormai il sole, l'aria fuori di casa si stava già facendo molto fredda.

Ma, aperta la porta, si fermò un istante sulla soglia, incerta se invitare la bambina ad entrare e perfino se dovesse parlarle.

Anzi, fu quasi in dubbio se fosse proprio una bambina vera o solo una ghirlanda leggera di neve fresca portata qua e là per il giardino dal gelido ponente.

Fra tutti i bambini del vicinato, la signora non riusciva a ricordare quel volto, col suo puro candore, con quella delicata tinta rosea. E in quanto al vestito, che era tutto bianco e palpitava al vento, nessuna donna ragionevole l'avrebbe messo ad una bambina, per mandarla fuori a giocare nel cuore dell'inverno.

Ma per quanto etereo il suo abito fosse, la bambina non soffriva affatto il freddo e danzava sulla neve con tanta leggerezza che la punta dei suoi piedini quasi non vi lasciava orma, mentre Violetta riusciva appena a starle alla pari e Papavero, con le sue gambette corte, era costretto a rimanere indietro.

Ad un tratto durante il gioco, la strana bambina si mise tra Violetta e Papavero e, prendendoli per mano, venne avanti con loro, saltellando allegramente. Ma quasi subito Papavero tirò via la sua manina e cominciò a stropicciarsela come se le dita gli formicolassero dal freddo mentre anche Violetta si liberava, dicendo che era meglio non prendersi per mano.

La damigella in abito bianco non pronunciò parola e continuò a danzare allegramente come prima.

Se Violetta e Papavero non volevano giocare con lei, ella avrebbe trovato un ottimo compagno di giochi nel ponente vigoroso e freddo che continuava a spingerla qua e là per il giardino.

La madre intanto rimaneva sulla soglia, domandandosi come potesse una bambina somigliare tanto a un mulinello di neve o come un mulinello di neve potesse somigliare tanto a una bambina.

Chiamò Violetta e le parlò a bassa voce: "Violetta, come si chiama quella bambina? Abita vicino a noi?"

"Come, mamma cara", rispose Violetta ridendo all'idea che la madre non riuscisse a comprendere una cosa tanto semplice, "questa è la nostra sorellina di neve che abbiamo fatto ora!"

In quel momento uno stormo di uccelli scese volteggiando per l'aria. Com'era naturale, evitarono Violetta e Papavero ma - e questo parve strano - volarono subito verso la bambina dall'abito bianco, aleggiarono ansiosi intorno al suo capo, si posarono sulle sue spalle e sembrarono trattarla come una vecchia conoscenza.

Da parte sua, ella parve contenta di vedere quegli uccelletti.

Violetta e Papavero ridevano del grazioso spettacolo.

"Violetta", disse la madre molto perplessa, "dimmi la verità, senza scherzare. Chi è quella bambina?"

"Ma cara mamma, ti ho detto la verità: è il fantoccio di neve che abbiamo fatto Papavero ed io. Anche Papavero te lo potrà confermare."

Mentre la mamma era ancora esitante su quel che dovesse pensare e dovesse fare, il cancello d'ingresso del giardino si spalancò e il padre di Violetta e di Papavero entrò avvolto in un ampio cappotto di lana blu, con un berretto di pelliccia che gli copriva gli orecchi ed enormi guanti alle mani.

Il signor Lindsey era un uomo di mezza età con un'espressione stanca eppure allegra sul volto arrossato dal vento e dal gelo.

Alla vista della moglie e dei bambini gli occhi gli si illuminarono; subito scorse la piccola estranea candida che correva qua e là per il giardino come una danzante ghirlanda di neve.

"Chi è mai quella bambina? La madre deve essere certamente matta per lasciarla uscire in una giornata rigida come è stata oggi con quel leggero abitino bianco e quelle pantofoline."

"Mio caro", rispose la moglie, "su quella bambina ne so quanto te. Suppongo sia figlia di qualche vicino. Violetta e Papavero insistono che essa è solo un fantoccio di neve che per quasi tutto il pomeriggio sono stati occupati a fabbricare qui nel giardino."

Nel dir questo, la madre gettò un'occhiata verso il punto dove i bambini avevano fatto il loro fantoccio di neve, e quale fu la sua sorpresa nel vedere che di tanta fatica non rimaneva più la minima traccia! Nessun mucchio di neve, nulla!, all'infuori delle impronte di piccoli passi intorno ad uno spazio vuoto.

"Papà caro, non capisci? Questo è il nostro fantoccio di neve, che Papavero ed io abbiamo fatto perché volevamo un altro compagno per giocare. Non è vero, Papavero?" 

"Sì papà", disse il vermiglio Papavero. "Questa è la nostra sorellina di neve, non è bella?"

"Che sciocchezze, bambini!", esclamò l'ottimo e onesto padre che considerava tutte le cose secondo il suo buon senso.

"Andiamo, questa piccola estranea non deve rimanere fuori all'aria rigida un minuto di più. La porteremo nel salotto e le darai una cena di latte caldo col pane. Intanto io mi informerò dai vicini e se sarà necessario manderò il banditore per le strade per dare avviso di una bambina smarrita."

Così dicendo, il brav'uomo pieno di buon cuore si avviò verso la piccola damigella bianca con le migliori intenzioni del mondo.

Ma Violetta e Papavero afferrando ognuno la mano del padre, lo supplicarono ansiosamente di non farla entrare in casa.

"Papà, questa è la nostra bambina di neve! Non può vivere se non respira il vento freddo. Non farla entrare nella stanza calda!"

"Sì, papà", gridò Papavero battendo il piedino in terra, "è la nostra bambina di neve! Non le piacerà il fuoco caldo!"

"Sciocchezze, bambini!", esclamò il padre, in parte infastidito e in parte ridendo di quella che considerava la loro ridicola ostinazione.

"Marito mio!", intervenne a bassa voce la moglie che aveva osservato più da vicino la bambina di neve ed era più perplessa che mai, "vi è qualcosa di molto strano in tutto ciò. Mi giudicherai sciocca... ma... non può essere che qualche invisibile angelo sia stato attirato dalla semplicità e dalla buona fede con cui i nostri bambini si sono messi all'opera? E ne è risultato un miracolo. No, non ridere di me; capisco anch'io che è un'idea sciocca!"

"Mia cara", rispose il marito ridendo di cuore, "sei ancora una bambina come Violetta e Papavero."

Ma ora il premuroso signor Lindsey si era avanzato nel giardino; al suo approssimarsi gli uccelli presero il volo e anche la piccola damigella bianca si ritrasse scuotendo il capo, quasi per dire "Non mi toccate, ve ne prego!", attirando l'inseguitore dove la neve era più alta.

Una volta il buon uomo inciampò e cadde bocconi e nel rialzarsi, con la neve attaccata alla ruvida stoffa del cappotto, parve bianco e gelido come un enorme fantoccio di neve.

E intanto alcuni vicini, vedendolo dalla finestra, si domandarono che cosa gli avesse preso nel correre così nel giardino dietro a un mulinello di neve che il vento spingeva qua e là.

Finalmente, dopo molta fatica, egli riuscì a cacciare la piccola estranea in un angolo donde non poteva assolutamente sfuggirgli.

Era quasi sera, e la moglie, che stava a guardare, fu colpita nel vedere che la bambina di neve luceva e scintillava e sembrava diffondere intorno a sé un alone luminoso; ed era uno scintillio freddo, come di un ghiacciolo sotto la luna. Trovò strano che suo marito non vedesse nulla di notevole nell'aspetto della bambina di neve.

"Vieni qua, strana bambina! Ti ho preso, finalmente!", esclamò il buon uomo prendendola per mano, "e ti farò star bene tuo malgrado! Metteremo un bel paio di calze di lana calda sui tuoi piedini gelati, e avrai un bello scialle pesante per avvolgerti. Vieni dentro."

E col più benevolo dei sorrisi sul volto perspicace, tutto rosso dal freddo, quell'uomo bene intenzionato prese per mano la bambina di neve e la condusse verso la casa.

Ella lo seguì avvilita e di mala voglia: tutto lo scintillio e lo splendore era scomparso dalla sua figura: se poco prima somigliava ad una sera limpida, gelida ed ingemmata di stelle, con un riflesso purpureo sul freddo orizzonte, ora appariva opaca e languida come il disgelo.

Mentre il buon signore Lindsey la conduceva su per i gradini della soglia, Violetta e Papavero con gli occhi pieni di lacrime che si congelavano prima di scendere giù per le guance, lo guardarono in viso e di nuovo supplicarono il padre di non portare in casa la bambina di neve.

"Non portarla dentro!" esclamò il buon uomo. "Ma sei pazza, mia piccola Violetta! è già così fredda che la sua mano ha quasi gelato la mia, pur con i miei grossi guanti. Volete che muoia assiderata?"

Mentre egli saliva i gradini, la moglie aveva dato un altro lungo sguardo, attento e quasi timoroso, alla piccola estranea candida. Non sapeva neppur lei se fosse un sogno, ma le parve di vedere sul collo della piccina l'impronta delicata delle dita di Violetta. Sembrava proprio che nel modellare la figura, Violetta avesse dato un leggero colpetto con la mano, e avesse poi dimenticato di levigare del tutto la traccia.

"Dopotutto, marito mio", disse la madre, "somiglia in modo strano ad una figura di neve! Io ci credo che sia fatta di neve!"

Una folata del vento di ponente investì la bambina che di nuovo rifulse come una stella.

"Non c'è da meravigliarsi che sembri fatta di neve! è mezza assiderata, povera piccina!", rispose il buon signor Lindsey.

Senza altri discorsi e animato sempre dalle migliori intenzioni, quell'individuo pieno di benevolenza e buon senso condusse la candida damigella, avvilita, sempre più avvilita, al riparo dall'aria gelida, nel suo confortevole salotto.

Una stufa diffondeva un vivo riflesso attraverso il finestrino di mica nello sportello di ferro e faceva fumare e ribollire l'acqua del vaso posatovi sopra.

Un odore caldo e opprimente dilagava per tutta la stanza.

Il salotto, parato di tende rosse alle finestre e con un tappeto di eguale colore, sembrava caldo anche all'apparenza.

Oh, era proprio il luogo migliore per la piccola sconosciuta!

L'uomo di buon senso mise la bambina di neve sul tappeto proprio dinanzi alla stufa che fumava.

"Ora starà bene!" esclamò il signor Lindsey. "Fa come se fossi a casa tua, cara bambina!"

La piccola damigella bianca aveva un'aria triste e avvilita, mentre se ne stava in piedi sul tappeto, investita dal soffio caldo della stufa come da una pestilenza.

Una volta gettò un'occhiata di nostalgia alle finestre e attraverso le tende rosse intravide i tetti coperti di neve, le stelle che brillavano gelide e tutta la deliziosa intensità della notte fredda.

Il vento rigido tamburellava sui vetri, quasi invitandola ad uscire fuori.

Invece la bambina di neve rimaneva avvilita dinanzi alla stufa calda.

Ma per l'uomo di buon senso tutto procedeva bene.

"Mettile subito un bel paio di calze grosse e uno scialle di lana o una coperta e di' a Dora di darle un po' di cena calda appena il latte bolle", disse alla moglie.

"E voi, Violetta e Papavero, fate divertire la vostra amichetta: vedete come è malinconica perché si trova in una casa estranea. Quanto a me, farò un giro tra i vicini per rintracciare la sua famiglia."

La madre, intanto, era andata alla ricerca di uno scialle e delle calze: per quanto fine e delicato, il suo modo di considerare il fatto aveva ceduto, come sempre, all'ostinato realismo del marito.

Senza badare alla rimostranze dei figli, il buon signor Lindsey si avviò chiudendosi con cura alle spalle la porta del salotto. Rialzò il bavero del cappotto fin sulle orecchie e uscì dalla casa; ma era appena arrivato al cancello del giardino che fu richiamato dalle grida di Violetta e Papavero e dai colpi battuti col ditale sulla finestra del salotto.

"Marito, non occorre andare in cerca dei genitori della bambina!", gridava la signora.

"Te l'avevamo detto, papà!", gridarono Violetta e Papavero appena egli fu rientrato nel salotto.

"Hai voluto portarla dentro: e adesso la nostra sorellina di neve si è liquefatta!"

E i loro visini erano già sciolti in lacrime, tanto che il loro papà, vedendo quali strane cose accadono talvolta in questo prosaico mondo, ebbe una gran paura che anche i suoi due bambini potessero liquefarsi!

Al colmo della perplessità, chiese spiegazioni alla moglie, ma ella poté dirgli soltanto che, richiamata in salotto dalle grida di Violetta e Papavero, non aveva trovato altre tracce della bambina bianca, se non i resti di un mucchio di neve, che, davanti ai suoi occhi, si erano liquefatti interamente sul tappeto.

"Ed ecco lì tutto quel che rimane!", aggiunse indicando una pozza d'acqua dinanzi alla stufa.

"Sì, papà!", confermò Violetta, guardandolo con aria di rimprovero, attraverso le lacrime. "Ecco tutto quello che rimane della nostra sorellina di neve!"

"Cattivo, papà!", gridò Papavero, battendo il piede in terra e, tremo a dirlo, scuotendo il pugno verso l'uomo di buon senso.

"Ti avevamo detto che sarebbe accaduto! Perché hai voluto portarla in casa?"

E la stufa, attraverso il finestrino di mica nello sportello di ferro, sembrava fissare il buon signor Lindsey, come un demonio dagli occhi di fuoco, trionfante per il male che aveva commesso!

Questo, direte voi, fu uno dei rari casi che pur talvolta accadono, in cui il buon senso ha torto.

L'insolito racconto della bambina di neve, pur se sembri cosa puerile a quelle specie di sagaci persone cui appartiene il signor Lindsey, si presta nondimeno per trarne in vari modi una morale a tutta loro edificazione.

Una delle sue lezioni, per esempio, potrebbe essere che è dovere degli uomini e specialmente degli uomini benevoli, considerare bene le cose cui si accingono e, prima di agire per i loro filantropici fini, essere ben sicuri di comprendere la natura e tutte le relazioni di quel che hanno per le mani.

Ciò che è assodato come un elemento di bene per un essere, può riuscire assolutamente dannoso per un altro; così il calore del salotto si confaceva abbastanza a bambini di carne e ossa quali Violetta e Papavero; sebbene non fosse affatto molto salubre neanche per loro, e invece comportava addirittura l'annientamento per la sfortunata bambina di neve.

Ma, infine, non vi è nulla da insegnare ad uomini saggi dello stampo del signor Lindsey.

Sanno tutto, oh certo! tutto ciò che è stato e tutto ciò che è e tutto ciò che, per ogni possibilità futura, debba essere.

E se qualche fenomeno della natura o della Provvidenza dovesse trascendere il loro modo di pensare, essi non lo ammetterebbero mai.

"Moglie", disse infatti il signor Lindsey, "guarda quanta neve hanno portato a casa i bambini attaccata alle scarpe! Ha formato una vera pozzanghera, qui davanti alla stufa. Ti prego, di' a Dora di portare degli stracci e di asciugarla!"

 

Nella palude (racconto horror)


"è un posto molto strano", disse Amberville, "anche se non so come definire l'impressione che suscitò in me. A descriverlo sembra un luogo normalissimo: non è altro che un prato di carici, circondato per tre lati da pendii su cui crescono pini giallastri. Un piccolo ruscello vi scorre dal lato libero, e si perde in un cul-de-sac di tifa e terra paludosa. Il ruscello, scorrendo sempre più lentamente, forma una polla stagnante piuttosto estesa, da cui alcuni ontani dall'aspetto malato tentano di ritrarsi, come se non sopportassero la vicinanza. Un salice piangente, morto, si affaccia sullo stagno, e il suo pallido, scheletrico riflesso, si confonde nella feccia verde che ne chiazza le acque. Non ci sono merli, usignoli e nemmeno libellule, come invece capita di trovarne in luoghi simili. Tutto è silenzioso e desolato. Quel posto è maligno, è empio in un modo che semplicemente non posso descrivere. Sono stato spinto a farne uno schizzo quasi contro la mia volontà, poiché qualcosa di così delirante è decisamente estraneo al mio stile. In realtà ho fatto due abbozzi e te li mostrerò, se lo desideri."

Poiché avevo un'alta considerazione dell'arte di Amberville, e da tempo lo ritenevo uno dei più importanti paesaggisti della sua generazione, fui ovviamente ansioso di vedere i disegni. Lui, comunque, non attese che esprimesse a parole il mio interesse, ma aprì direttamente la cartella.

L'espressione del suo volto, i movimenti stessi delle mani esprimevano in modo eloquente uno strano miscuglio di coercizione e ripugnanza mentre tirava fuori e spiegava i due bozzetti ad acquerello di cui aveva parlato.

In nessuno dei due riuscii a riconoscere il luogo ritratto.

Si trattava chiaramente di un angolo che mi era sfuggito durante le mie sporadiche escursioni ai piedi delle colline nei dintorni di Bowman, il villaggio dove avevo acquistato due anni prima un ranch abbandonato e mi ero ritirato per ottenere la solitudine indispensabile alla mia attività letteraria.

Francis Amberville, nei soli quattordici giorni in cui era stato mio ospite, grazie alla sua capacità di apprezzare le potenzialità pittoriche del paesaggio, si era indubbiamente familiarizzato coi dintorni più di quanto fosse accaduto a me. Era sua abitudine andare in giro tutte le mattine armato del materiale per dipingere e in questo modo aveva già trovato il soggetto per più d'un eccellente paesaggio. La sistemazione che avevamo trovato, infine, era conveniente ad entrambi, poiché in sua assenza io potevo applicarmi proficuamente alla mia vecchia Remington.

Esaminai gli acquerelli attentamente. Benché solo abbozzati erano entrambi notevoli, e mostravano la caratteristica grazia ma anche il vigore dello stile di Amberville.

Inoltre fin dalla prima occhiata riconobbi una qualità che sembrava estranea allo spirito abituale dei suoi lavori.

Gli elementi della scena erano quelli che aveva descritto.

In un bozzetto lo stagno era quasi nascosto da un canneto, e il salice morto vi si protendeva sopra da un'angolazione angosciosa, come se qualcosa l'avesse misteriosamente arrestato nella caduta verso l'acqua stagnante.

Sulla riva opposta gli ontani erano tesi nel supremo sforzo di allontanarsi dallo stagno, e infatti mostravano a nudo le radici nodose.

Nell'altro schizzo lo specchio d'acqua campeggiava in primo piano, con l'albero-scheletro che pendeva disperatamente sulla riva.

Sulla sponda più lontana dello stagno le canne sembravano ondeggiare e sussurrare fra loro in un vento morente; quanto all'aguzza barriera di pini all'estremità del prato, era rappresentata come un muro verde cupo che chiudeva il bozzetto, lasciando solo, in cima, un pallido margine di cielo autunnale.

Tutto questo, come anche il pittore aveva riconosciuto, era abbastanza ordinario.

Eppure fui immediatamente colpito dall'orrore che si nascondeva in questi semplici elementi, espresso dal loro insieme come se essi fossero i lineamenti contorti, maligni di un volto demoniaco.

In entrambi gli acquerelli quest'aspetto sinistro era espresso nella stessa maniera, come se il medesimo volto fosse stato ritratto prima di profilo e poi frontalmente. Non riuscivo a isolare i dettagli separati che formavano quell'impressione; ma ugualmente, quando guardavo, l'orrore di una malvagità arcana, uno spettro di disperazione, malignità, squallore mi fronteggiava dal dipinto sempre più apertamente e odiosamente.

Quell'angolo sperduto di mondo sfoggiava una smorfia diabolica, macabra, e si aveva l'impressione che, se avesse potuto parlare, avrebbe proferito le bestemmie di un demone gigante, o i rauchi sberleffi di uno stormo di uccelli del malaugurio.

Era un maleficio completamente al di là della portata dell'uomo, perché era più antico dell'uomo.

Per fantastico che possa sembrare, il prato aveva l'aspetto di un vampiro invecchiato orribilmente tra detestabili infamie. In modo sottile, indefinibile, si intuiva che aveva sete di ben altro che il pigro rigagnolo da cui era bagnato.

"Dov'è questo posto?", chiesi, dopo un minuto o due di silenziosa osservazione. Era incredibile che una cosa del genere potesse esistere veramente, e ugualmente incredibile che una natura positiva come quella di Amberville potesse averne avvertito la qualità misteriosa.

"è una valletta che appartiene alla fattoria abbandonata, a circa un chilometro e mezzo dall'inizio della stradina che conduce al Bear River", rispose.

"Dovresti conoscerla. C'è un piccolo frutteto intorno alla casa, sul pendio più alto della collina; ma la parte bassa, quella che termina nel prato, è terra selvaggia."

Cominciai a visualizzare la località in questione.

"Suppongo che si tratti del vecchio ranch dei Chapman", decisi.

"Nessun altro posto lungo quella strada corrisponde alla tua descrizione."

"Be', a chiunque appartenga quel prato è il posto più orribile che abbia mai incontrato. Ho visto altri paesaggi in cui c'era qualcosa di imbarazzante, ma mai nessuno come questo."

"Forse è infestato", dissi, per metà scherzando.

"Dai particolari che mi dici deve essere proprio il prato in cui il vecchio Chapman fu trovato morto una mattina dalla figlia più giovane. Accadde pochi mesi dopo che mi ero stabilito qui, e tutti pensarono che avesse avuto un attacco di cuore. Il corpo era freddo, e probabilmente era rimasto là tutta la notte, perché la famiglia l'aveva visto sparire all'ora di cena. Non ricordo Chapman molto bene, ma rammento che aveva la reputazione di essere un uomo eccentrico. Poco prima che morisse parecchie persone pensavano che sarebbe diventato pazzo. Ma, come ti ho detto, non ricordo i particolari. In ogni modo, quando morì, la moglie e i figli se ne andarono, e da allora in poi nessuno ha occupato la casa o coltivato il frutteto. Insomma, una tipica tragedia agreste."

"Non credo ai fantasmi", osservò Amberville, che sembrava aver preso sul serio la mia battuta sull'infestazione.

"Ma qualunque sia l'influenza che governa quel posto, non è di origine umana. A pensarci bene, una volta o due ho avuto una sciocca impressione: che qualcuno mi guardasse mentre schizzavo questi bozzetti. Ed è strano, perché me n'ero praticamente dimenticato finché tu non hai tirato fuori quella faccenda dell'infestazione. Mi pareva di vedere quest'osservatore con la coda dell'occhio, ai margini del mio campo visivo. Era un vecchio ribaldo con baffi grigi e sporchi e uno sguardo terribile. è strano che io abbia una così netta impressione di lui senza averlo mai visto veramente... Ho pensato che fosse un vagabondo che si era avventurato nella valletta, ma quando ho alzato gli occhi per guardarlo meglio, semplicemente non c'era. Come se si fosse dissolto nel terreno umido, tra le canne e i carici."

"Quella che mi hai fatto non è una cattiva descrizione di Chapman", dissi. "Ricordo i suoi baffi: erano quasi bianchi, a parte le macchie di tabacco. Un tipo duro e all'antica, se mai ce n'è stato uno. E tutt'altro che socievole. Verso la fine aveva il veleno negli occhi, e questo senza dubbio ha contribuito alle dicerie sull'infermità mentale. Adesso alcuni dei racconti sul suo conto mi tornano improvvisamente in mente: la gente diceva che trascurava sempre più la cura del frutteto, e chi veniva a cercarlo lo trovava di solito in quella valletta, dove se ne stava pigramente a guardare con occhi assenti gli alberi e l'acqua. E questa è un'altra ragione per cui pensarono che stesse uscendo di senno, probabilmente. Ma sono certo di non aver mai sentito dire da nessuno che ci fosse qualcosa di strano o di malevolo in quel prato, né alla morte di Chapman né dopo. è un angolo solitario, e credo che adesso non ci vada proprio più nessuno."

"Io l'ho scoperto quasi per caso", disse Amberville.

"Il posto non è visibile dalla strada, per via degli spessi pini, e del resto c'è un'altra cosa strana: quando stamattina sono uscito avevo già la forte e precisa sensazione che avrei scoperto qualcosa di insolito interesse.

Ho tirato dritto verso quella valletta, per dir così, e devo ammettere che la mia sensazione era perfettamente giustificata. Quel luogo mi repelle, ma mi affascina anche. Devo risolvere questo mistero, se c'è una soluzione", aggiunse sulla difensiva.

"Ci tornerò domani mattina presto, coi colori a olio, per cominciare un vero quadro."

Ero sorpreso, perché conoscevo la predilezione di Amberville per la luminosità e la gaiezza nei suoi paesaggi, qualità che avevano indotto i critici a paragonarlo a Sorolla.

"Questo quadro sarà una novità, nella tua produzione", commentai.

"Bisognerà che venga a darci un'occhiata anch'io, prima o poi. Probabilmente un posto così è molto più nel mio stile che nel tuo: sicuramente nasconde una storia sinistra e fantastica, o almeno così sembra dai tuoi schizzi e dalla tua descrizione."

Passarono parecchi giorni. A quell'epoca ero occupato nel penoso e complicato problema di concludere un romanzo, e così rimandai indefinitamente il proposito di visitare la valletta scoperta da Amberville.

Il mio amico d'altra parte era evidentemente tutto preso dal nuovo lavoro: ogni mattina si avviava col cavalletto e i colori a olio, e ogni giorno tornava sempre più tardi, dimenticando l'ora del pranzo che invece prima, nonostante quelle spedizioni, rispettava puntualmente.

Il terzo giorno non si fece vivo fino al tramonto; contrariamente alle sue abitudini non mi mostrò ciò che aveva fatto, e le risposte che diede alle mie domande sul procedere del lavoro furono vaghe ed elusive.

Per qualche ragione non desiderava parlarne.

Fu altrettanto reticente a proposito del prato a cui s'interessava, e posto dinanzi a domande dirette si limitò a ripetere in modo distratto e formale il resoconto che mi aveva fatto dopo aver scoperto il posto la prima volta.

In un modo misterioso e indefinibile sembrava che il suo atteggiamento fosse completamente mutato.

Ma ci furono altri cambiamenti: Amberville sembrava aver perduto la sua vitalità, e spesso lo sorprendevo con la fronte aggrottata, e scorgevo un'ombra equivoca nei suoi occhi sinceri. C'era in lui una malinconia, una morbosità, che, a quanto mi era dato conoscere dai cinque anni della nostra amicizia, non aveva mai posseduto. Forse, se non fossi stato così assorto nei miei problemi, mi sarei chiesto con maggior zelo quale potesse essere la causa di quell'umor nero, che sulle prime attribuii piuttosto superficialmente a qualche problema tecnico che non riusciva a risolvere.

E intanto, era sempre meno l'Amberville che io conoscevo; il quarto giorno, quando rientrò al crepuscolo, avvertii nei suoi modi una scontrosità del tutto estranea alla sua natura.

"Cosa c'è che non va?", azzardai. "Hai pestato un serpente? O è il prato del vecchio Chapman che ti dà sui nervi con la sua tetraggine?"

Per una volta fece lo sforzo di liberarsi della sua malinconia, della reticenza e dell'umor nero.

"è il mistero infernale di quella cosa", dichiarò. "Devo risolverlo, in un modo o nell'altro. Quel posto ha una personalità individuale: è là, come l'anima dentro un corpo umano, ma io non riesco ad afferrarla, né a toccarla. Tu sai che non sono superstizioso, ma, d'altra parte, non sono neppure un ottuso materialista: ho avuto modo di assistere a fatti molto strani, nel corso della vita. Può essere che quella valletta sia abitata da ciò che gli antichi chiamavano un Genius Loci. Più di una volta, prima che tutto questo accadesse, ho sospettato che cose del genere potessero esistere davvero: che potessero risiedere, appartenere, capisci, a qualche luogo particolare. Ma è la prima volta che ho motivo di sospettare che la forza davanti a cui mi trovo è malevola, ostile. Le altre influenze di cui ho avvertito la presenza erano benigne, benché in senso lato, e in un modo vago e impersonale; e se non benigno erano totalmente indifferenti alle faccende umane, forse addirittura inconsapevoli della nostra esistenza. Questa, invece, è orribilmente sveglia e vigile: sento che la valletta - o la forza che vi è imprigionata - mi esanima e mi sonda. Quel posto ha l'aspetto di un vampiro assetato, e aspetta di potermi assorbire in qualche modo, se ne avrà l'opportunità. è un posto senza ritorno in cui si addensa tutto ciò che è male, e sento che uno spirito men che vigile potrebbe esserne preso e irretito. Ma te l'ho detto, non riesco a tenermene lontano."

"Sembra davvero che quel luogo si stia impossessando di te", dissi, completamente sbalordito dalle sue affermazioni e dall'aria di timorosa e morbosa convinzione con cui erano state pronunciate.

Apparentemente non mi aveva udito, perché non replicò alla mia osservazione.

"E c'è un'altra cosa", continuò, con un'intensità febbrile. "Ti ricordi che avevo la sensazione di scorgere con la coda dell'occhio un vecchio che mi guardava? Be', l'ho visto di nuovo, molte volte sempre ai margini del campo visivo; ma negli ultimi due giorno mi è apparso più direttamente, benché in modo strano direi parziale. Talvolta, mentre studio il salice morto con particolare intensità, vedo la sua faccia che mi osserva malignamente, la sua faccia dalla barba sudicia... che fa parte del tronco. Poi si libra tra i rami senza foglie, come se ne fosse stata imprigionata. E qualche volta una mano nodosa, e la manica a brandelli di una giacca, emergono dalla copertura di alghe nello stagno, come se un corpo annegato stesse risalendo in superficie. E un momento dopo, o anche simultaneamente, qualche altro particolare della figura appare tra gli ontani e le canne. Sono sempre apparizioni brevi, e quando cerco di esaminarle da vicino svaniscono come nuvole di vapore e si confondono col paesaggio. Ma quel vecchio farabutto, chiunque o qualunque cosa sia, è solo un elemento ricorrente. Oh, non che sia meno maligno di ogni altra cosa lì intorno, ma sento che non è l'elemento principale dell'orrore."

"Buon Dio!", esclamai. "Certo devi aver visto qualcosa. Se non ti spiace verrò con te e ti terrò compagnia per un po' domani pomeriggio. Il mistero comincia a coinvolgere anche me."

"Certo che non mi spiace. Vieni pure."

I suoi modi avevano riassunto di colpo, e per nessuna visibile ragione, l'innaturale riservatezza dei quattro giorni precedenti. Mi diede uno sguardo furtivo in cui si nascondeva qualcosa di cupo e di poco amichevole. Era come se una barriera oscura, sollevatasi per un momento, fosse di nuovo calata fra di noi, e le ubbie del suo strano comportamento lo assalirono di nuovo; i miei sforzi di tener desta la conversazione ricevettero per tutta risposta una serie di monosillabi, metà burberi, metà distratti. Provavo una crescente preoccupazione, piuttosto che offesa, e per la prima volta cominciai a notare l'insolito pallore del suo viso e la febbrile lucentezza degli occhi.

Sembrava malato, come se una parte della sua esuberante vitalità gli fosse stata strappata e avesse lasciato al suo posto un'energia aliena di dubbia natura, ma certamente meno salutare.

Tacitamente dunque rinunciai a tentare di sottrarlo alla penombra in cui si era ritirato; per il resto della sera finsi di leggere un romanzo, mentre Amberville manteneva il suo contegno svagato.

Mi interrogai su quel mistero finché non venne l'ora di andare a letto, e mi confermai nella decisione di visitare di persona la valletta di Chapman.

Non credevo nel soprannaturale, ma era chiaro che quel posto stava esercitando una deleteria influenza su Amberville.

La mattina dopo, quando mi svegliai, il mio domestico cinese mi informò che il pittore aveva già fatto colazione ed era partito col cavalletto e i colori. Questa nuova prova della sua ossessione mi turbò, ma riuscii lo stesso ad applicarmi per tutta la mattina al mio romanzo.

Subito dopo colazione guidai lungo la statale e poi imboccai la stretta stradina che serpeggiava verso Bear River; lasciai la macchina sul colle folto di pini che sovrastava il posto di Chapman. Benché non avessi mai visitato la valletta avevo un'idea abbastanza chiara della sua posizione. Ignorando la via erbosa, semi dimenticata, che correva nella parte superiore della proprietà, m'incamminai verso il basso tra gli alberi, diretto con sicurezza alla piccola valle cieca, e più di una volta vidi, sul pendio opposto, il frutteto morente con i suoi peri e i meli, e il tugurio in rovina che era stato dei Chapman.

Era una calda giornata di ottobre, e la serena solitudine della foresta, la dolcezza autunnale della luce e dell'aria facevano sembrare impossibile ogni congettura su cose maligne e sinistre. Quando giunsi sul fondo del prato ero quasi pronto a ridere dei racconti di Amberville, ma fin dalla prima occhiata il posto mi colpì per la sua tristezza e il suo squallore. Gli elementi della scena erano quelli che il mio amico aveva descritto così bene, anche se a me non riuscì di avvertire l'aura malefica che lui aveva trasfuso nello stagno, nei salici, gli ontani e il canneto dei suoi dipinti.

Amberville mi volgeva la schiena, seduto su uno sgabello pieghevole davanti al cavalletto, che aveva piazzato tra i cespugli d'erba selvatica verde scuro, proprio sopra lo stagno.

Tuttavia non sembrava intento al lavoro: guardava intensamente la scena davanti a lui, con il pennello pigramente rilasciato fra le dita.

L'erba ammortizzava il rumore dei miei passi, e lui non mi sentì avvicinarmi.

Mi affacciai con curiosità sulla sua spalla, per vedere la grande tela a cui stava lavorando. Per quanto potevo giudicare il quadro aveva già raggiunto un raffinato livello di perfezione tecnica; era una resa quasi fotografica dell'acqua schiumante, dello scheletro bianchiccio del salice piangente, degli ontani mezzo sradicati e malevoli, e del canneto. Ma di nuovo vidi nel quadro lo spirito macabro, demoniaco degli schizzi: il prato sembrava aspettare e fissava l'osservatore come una faccia distorta dal male.

Era una sacca di malignità e disperazione, tagliata fuori dal mondo autunnale che la circondava; un angolo malato, per sempre maledetto e solitario.

Guardai di nuovo il paesaggio e vidi che il posto era effettivamente come Amberville lo aveva ritratto: portava la maschera di un vampiro, vigile e malevolo.

E nello stesso momento mi resi conto del silenzio innaturale: non c'erano uccelli, non c'erano insetti, proprio come aveva detto il pittore.

E sembrava che solo venti esausti, moribondi, riuscissero a passare sul fondo di quella conca.

Il sottile ruscello che si perdeva nel terreno paludoso somigliava ad un'anima che precipitasse nella perdizione. Faceva anch'esso parte del mistero, perché non riuscivo a ricordare nessun corso d'acqua sulla parte bassa della collina che giustificasse nel prato lo sbocco di un corso sotterraneo.

La fissità di Amberville e la posizione della testa e delle spalle facevano pensare a un uomo ipnotizzato.

Stavo per manifestargli la mia presenza, ma in quell'istante ebbi la sensazione  che non fossimo soli.

Appena ai margini del mio campo visivo mi sembrò di scorgere una figura in atteggiamento furtivo, come se ci guardasse entrambi.

Mi girai di scatto, ma non c'era nessuno. Poi udii un grido di meraviglia da parte di Amberville, e girandomi di nuovo lo trovai che mi fissava. Sui lineamenti aveva un'espressione di terrore e sorpresa che tuttavia non aveva cancellato completamente lo stupore ipnotico.

"Mio Dio!", disse. "Ho pensato che tu fossi il vecchio!"

Non so se ci dicemmo altro: mi resta tuttavia l'impressione di un vuoto silenzio.

Dopo quell'esclamazione di sorpresa Amberville sembrò ritrarsi in un impenetrabile mondo dell'astrazione e mi parve che non fosse più nemmeno conscio della mia presenza, proprio come se l'identificarmi e il dimenticarmi fossero stati una cosa sola.

Da parte mia avvertivo una costrizione sinistra, opprimente.

Quella scena infame fantastica mi deprimeva oltre misura.

Sembrava addirittura che il terreno paludoso volesse inghiottirmi, mentre i rami degli ontani malati mi facevano cenni invitanti. Lo stagno, su cui il salice ossuto incombeva come un simbolo della morte vegetale, mi bramava ugualmente, follemente, con le sue acque immobili.

Inoltre, e a parte l'atmosfera minacciosa di tutta la scena, mi resi conto che un altro cambiamento era avvenuto in Amberville, un cambiamento che sconfinava con la vera e propria alienazione. Il suo nuovo atteggiamento, di qualunque natura fosse, l'aveva ormai soverchiato e lui era sprofondato definitivamente nel morboso crepuscolarismo di cui ho già parlato; mi sembrò che non ci fosse più nessuna speranza di recuperarlo all'ottimismo e alla giovialità che gli erano connaturate, e pensai che forse un'incipiente follia si stesse impossessando di lui.

Questa possibilità mi atterrì.

Con maniere lente, quasi da sonnambulo, e senza darmi un secondo sguardo, cominciò a lavorare al dipinto; rimasi a guardarlo per un po', senza ben sapere cosa fare o dire.

Per lunghi intervalli si fermava e fissava con sognante intensità qualche particolare del paesaggio, e mi venne la bizzarra idea di un'affinità crescente, una misteriosa relazione tra Amberville e la valletta.

Era come se il prato gli avesse preso una parte dell'anima, dandogli in cambio qualcosa di sé.

Aveva l'aria di un uomo che condivide un segreto orrendo, che è diventato partecipe di una sapienza inumana. 

E in un lampo di orribile chiarezza vidi quel posto come un vampiro, e Amberville come la vittima consenziente.

Non posso dire quanto tempo rimasi laggiù. Alla fine mi avvicinai all'amico e lo scossi per la spalla: "Lavori troppo", dissi, "Stammi a sentire, riposati per un giorno o due."

Si voltò verso di me con lo sguardo stupefatto di chi è perduto in un sogno oppiaceo.

E poi, molto lentamente, questa espressione si mutò in rabbia malevola.

"Va' all'inferno!", ringhiò, "non vedi che ho da fare?"

Allora lo lasciai, perché non mi pareva che ci fosse altro da fare per il momento.

La natura pazzesca di tutta la faccenda bastava a farmi dubitare della mia stessa ragione.

Le sensazioni che il prato mi aveva suscitato (e quelle che avevo provato vedendo Amberville) sottendevano un orrore quale non avevo mai provato in nessun momento della mia vita: non da sveglio, almeno, e in condizioni normali di coscienza.

In fondo al declivio di pini giallastri mi girai un'ultima volta, per un'occhiata d'addio. Il pittore non si era mosso, contemplava ancora la scena del maleficio come un uccello incantato che osserva un serpente mortale.

Se la sensazione che ebbi poi fosse il frutto di un'illusione ottica o meno non so dirlo, ma in quell'istante mi parve di distinguere una debole aura maligna che non era né luce né nebbia scorrere e agitarsi sul prato, avvolgendo ma non alterando la forma del salice, degli ontani, dello stagno.

Furtivamente si allungò, protendendo verso Amberville quelle che sembravano braccia spettrali. Era una immagine molto tenue, e può essere stata benissimo un'illusione, ma fu rabbrividendo che mi allontanai al riparo dei pini alti, benevoli.

Per il resto di quel giorno e per la sera che seguì fui perseguitato dall'orrore, dal mistero che aveva trovato nel prato di Chapman. Credo di aver passato quasi tutto il mio tempo dibattendo invano, tra me, le teorie più diverse, e cercando di convincere la parte razionale della mia mente che tutto ciò che avevo visto e sentito era frutto d'inganno. Ma non arrivai a nessuna conclusione, a parte la convinzione che la salute mentale di Amberville era messa a repentaglio dalla cosa maledetta (di qualunque cosa si trattasse) che era tutt'uno con la valletta.

La malevola personalità di quel posto, l'impalpabile terrore, il mistero e in un certo senso l'allettamento che venivano dal posto di Chapman erano come fili di ragnatele tessuti intorno al mio cervello, e che non poteva strappare col semplice sforzo cosciente.

Comunque presi due decisioni: una fu che dovevo scrivere immediatamente alla fidanzata di Amberville, la signorina Avis, e invitarla da me per tenere compagnia all'artista durante il resto del suo soggiorno a Bowman.

La sua influenza, pensai, poteva forse controbilanciare l'influenza maligna che lo perseguitava. Poiché la conoscevo piuttosto bene l'invito non sarebbe parso fuori luogo.

Decisi di non dire niente ad Amberville: la sorpresa, sperai, gli avrebbe giovato ancora di più.

La seconda decisione fu che non dovevo visitare di nuovo la valletta, se potevo evitarlo.

Indirettamente (perché sapevo benissimo che è pazzesco tentare di combattere un'ossessione in modo aperto) avrei dovuto tentare di scoraggiare l'interesse del pittore verso quel posto e condurre la sua attenzione su altri temi. E poi si potevano organizzare gite e diversivi, anche a costo di ritardare il mio lavoro.

L'opaco crepuscolo autunnale mi sorprese in meditazioni di questo genere, ma Amberville non ritornò. Sgradevolissime supposizioni, senza nome né contorni precisi, cominciarono a tormentarmi mentre lo aspettavo e la notte avanzava.

Il pranzo si freddò in tavola. Alla fine, verso le nove, quando già avevo deciso di andare fuori a cercarlo, lui rientrò correndo.

Era pallido, scarmigliato, senza fiato; gli occhi avevano un'espressione dolorosa, come se qualcosa lo avesse atterrito oltre ogni sopportazione.

Non si scusò per il ritardo, né fece alcun riferimento alla mia visita nella valletta. Apparentemente aveva dimenticato l'episodio, perfino il suo cattivo garbo con me.

"Basta!", gridò. "Non tornerò mai più in quel posto, non rischierò più. Di notte è ancor più demoniaco che di giorno. Non posso dirti quello che ho visto, quello che ho avvertito... Devo dimenticarlo, se ci riesco. C'è un'emanazione... qualcosa che si rivela con l'assenza del sole, ma è latente di giorno. Ha tentato di adescarmi, mi ha invitato a rimanere là, stasera, e quasi mi ha avuto... Dio! Non credevo che cose simili potessero avvenire. Quell'orrendo miscuglio di...", s'interruppe, incapace di completare la frase. Aveva gli occhi dilatati dal ricordo di qualcosa che era troppo spaventoso per essere descritto. In quel momento io ricordai gli occhi velenosi del vecchio Chapman, che qualche volta avevo incontrato nel villaggio.

Non mi aveva mai interessato particolarmente, perché l'avevo giudicato un comune contadino, forse con qualche oscura e spiacevole inclinazione.

Ora, quando vidi lo stesso sguardo negli occhi di quel sensibile artista, mi chiesi con un brivido se anche Chapman si era reso conto della forza soprannaturale che infestava il suo prato. Forse ne era stato addirittura vittima, in un modo che sfidava la comprensione umana... In fondo era morto lì, e benché la sua morte non fosse parsa affatto misteriosa, alla luce di ciò che Amberville e io avevamo scoperto la faccenda acquistava un significato di cui nessuno avrebbe potuto sospettare.

"Dimmi ciò che hai visto", suggerii.

A quella domanda un velo sembrò calare fra noi, impalpabile ma tenebroso.

Lui scosse la testa, scontrosamente, e non mi diede risposta. Il terrore, quel sentimento umano che lo aveva ricondotto verso il suo io normale rendendolo momentaneamente comunicativo, adesso lo aveva abbandonato. Un'ombra più nera della paura, un'impenetrabile abisso alieno lo attrasse di nuovo.

Io avvertii un brivido repentino, un brivido dello spirito più che della carne, e una volta ancora ebbi la strana sensazione che esistesse un'affinità tra lui e il prato demoniaco.

Accanto a me, nella stanza illuminata dalla lampada e sotto una maschera d'umanità, sedeva una cosa che non era più completamente umana.

Dei giorni d'incubo che seguirono darò solo un riassunto, perché sarebbe impossibile descrivere l'orrore fantasmagorico, quasi astratto in cui vivevamo e ci muovevamo.

Scrissi immediatamente alla signorina Olcott, pregandola vivamente di farmi visita prima che Amberville andasse via; per assicurarmi il suo assenso feci vaghe allusioni alla mia preoccupazione per la salute di lui e al mio bisogno di aiuto.

Nel frattempo, attendendo la risposta, cercai di distrarre l'artista suggerendo gite in parecchie località di interesse pittorico nelle vicinanze: tutte offerte che declinò bruscamente, con fare sostenuto, anche se il suo atteggiamento era più impenetrabile e misterioso che sinceramente villano.

Praticamente ignorava la mia esistenza, e mi faceva capire chiaramente che desiderava essere lasciato alle sue occupazioni.

Alla fine, disperato, decisi che avrei fatto proprio questo, in attesa dell'arrivo di Avis Olcott. Lui usciva ogni mattina, come al solito, col cavalletto e gli altri attrezzi per dipingere, e tornava verso il tramonto o poco più tardi. Non mi raccontava dove era stato, e io mi trattenevo dal chiederglielo.

La signorina Olcott arrivò tre giorni dopo che avevo spedito la lettera, nel pomeriggio. Era giovane, flessuosa, estremamente femminile e completamente devota ad Amberville. Per la verità penso che ne provasse addirittura un po' di timore.

Le dissi tutto ciò che mi sembrò lecito rivelare e la misi in guardia dal morboso cambiamento che si era verificato nel suo fidanzato, che finsi di attribuire al nervosismo e al superlavoro.

Non potevo menzionare il prato di Chapman e la sua nefasta influenza: era una cosa troppo incredibile, troppo elusiva per servire da spiegazione a una ragazza moderna. Quando vidi l'allarme e lo stupore con cui ascoltava la mia storia mi sorpresi a desiderare che fosse fatta di una tempra più volitiva e decisa, e che fosse meno sottomessa nei confronti di Amberville. Una donna più forte forse l'avrebbe salvato, ma cominciai a chiedermi se Avis avrebbe potuto fare veramente qualcosa per combattere la forza imponderabile che stava trascinando nel baratro il mio amico.

La luna crescente pendeva come un corno intinto nel sangue del crepuscolo quando lui ritornò. Con mio grande sollievo la presenza di Avis sembrò avere un ottimo effetto, e nel momento in cui la vide Amberville uscì dalla scontrosità in cui si trincerava di solito, e che temevo lo avesse assorbito senza remissione.

Tornò quasi a essere l'uomo affabile che conoscevamo.

Forse era tutta scena, in vista di un altro proposito: ma in quel momento io non potevo sospettarlo. Mi congratulai con me stesso per aver trovato quel rimedio sovrano, e d'altra parte la ragazza si sentì chiaramente sollevata, nonostante lo guardasse ancora in modo lievemente sospetto, o ferito, quando lui per qualche istante cedeva alla distrazione o a un momento di ubbia, quasi l'avesse dimenticata. Complessivamente, tuttavia, ci fu una trasformazione che mi sembrò addirittura magica, considerata la sua recente tetraggine e il disinteresse per tutte le cose umane. Dopo aver tenuto loro compagnia per un po', lasciai la coppia sola e mi ritirai.

La mattina dopo mi alzai molto tardi, perché avevo dormito bene.

Avis ed Amberville, appresi, erano usciti insieme, portandosi una colazione preparata dal mio cuoco cinese. Chiaramente l'aveva portata con sé in una delle sue spedizioni artistiche, e mi augurai che la cosa gli giovasse.

Chissà perché non pensai neppure lontanamente che l'avesse portata al prato di Chapman: la sottile ombra maligna di quella faccenda cominciava a svanire dalla mia mente e mi rallegravo per il diminuito peso della responsabilità.

Poi, per la prima volta in una settimana, riuscii a concentrarmi sulla fine del mio romanzo.

I due tornarono al crepuscolo, e mi resi conto immediatamente che mi ero sbagliato in più d'un punto. Amberville si era nuovamente ritirato in una riservatezza sinistra, saturnina. La ragazza accanto a quel pezzo d'uomo, sembrava molto piccola, ed era in condizioni miserabili. Aveva paura, era sbigottita, come se avesse incontrato qualcosa che sfuggiva completamente alla sua comprensione e con la quale era umanamente incapace di confrontarsi.

Dissero entrambi molto poco. Non mi raccontarono dov'erano stati, ma del resto non c'era bisogno di domande per saperlo.

Il silenzio di Amberville, come al solito, sembrava dovuto al fatto che era sprofondato in qualche tetra riflessione, o cupo sogno. Avis invece sembrava vittima di una doppia angoscia: come se, a parte il terrore, le fosse stato proibito di parlare degli eventi del giorno e della sua esperienza. Sapevo che erano andati nel prato maledetto, ma ero tutt'altro che sicuro che Avis avesse percepito l'orrore e la malvagità del posto, o se non era semplicemente atterrita dall'insano mutamento del suo innamorato.

In un caso o nell'altro era ovvio che ne era completamente succube.

Cominciai a imprecare contro me stesso per averla invitata a Bowman, sebbene l'amarezza e il rimorso più grandi dovessero ancora venire.

Passò una settimana, e il pittore e la sua fidanzata continuarono nelle loro quotidiana escursioni: Amberville sempre chiuse nel suo sinistro estraniamento che sfidava ogni approccio, e la ragazza sempre terrorizzata, disperata, costretta e sottomessa. Come sarebbe andata a finire non riuscivo a immaginarlo, ma temevo che la minacciosa svolta nel carattere di Amberville fosse indice di una forma di alienazione, se non peggio ancora.

Le mie offerte di svaghi e passeggiate diversive furono sempre respinte dalla coppia e i miei sforzi per ottenere qualche risposta da Avis trovarono lo stesso muro di ostile elusività che avevo incontrato in lui.

Mi convinsi quindi che Amberville le aveva ingiunto di mantenere il segreto, e forse l'aveva abilmente convinta a diffidare del mio atteggiamento verso di lui.

"Tu non lo capisci", continuava a ripetermi lei. "è un uomo molto emotivo."

Tutta la faccenda era un mistero sempre più pazzesco, e mi sembrava che la ragazza venisse attratta a sua volta, direttamente o indirettamente, nella rete di fantasmi che aveva avviluppato l'artista.

Supposi che Amberville avesse fatto parecchi altri quadri ispirati alla valletta, ma lui non me li mostrò mai, né li menzionò. E il mio ricordo di quel luogo, man mano che il tempo passava, acquistava una vividezza irreale, quasi allucinata.

L'idea incredibile che ci fosse veramente una personalità in quel posto, una personalità malevola e vampiresca, divenne in me un'inconfessata convinzione nonostante gli sforzi della volontà.

Il prato mi ossessionava come uno spettro, orribile e seducente allo stesso tempo.

E allora sentii un desiderio impellente, morboso di visitarlo ancora una volta, per scoprire, se mai era possibile, il suo enigma. Pensavo spesso all'idea di Amberville a proposito di un Genius Loci che abitasse nella valletta, e alle apparizioni umane che sembravano associate a quel luogo.

Inoltre mi chiedevo che cos'era che l'artista aveva visto la sera in cui si era trattenuto nel prato fin dopo il crepuscolo, tornando poi a casa mia terrorizzato. Sembrava che non si fosse più azzardato a ripetere l'esperimento, nonostante la sua evidente soggezione a quell'ignoto allettamento.

La fine giunse improvvisa e senza premonizioni. Alcuni affari mi avevano condotto, un pomeriggio, negli uffici della contea, e non tornai fino a sera tarda.

La luna piena era alta sulle colline scure di pini. Mi aspettavo di trovare Avis e il pittore in salotto, ma non c'erano.

Li Sing, il mio factotum, mi disse che erano ritornati a ora di cena e che un'ora dopo Amberville era uscito di casa silenziosamente, mentre la ragazza era in camera sua. Scesa pochi minuti dopo, lei aveva mostrato un turbamento addirittura eccessivo quando aveva scoperto l'assenza del fidanzato, ed era uscita a sua volta per seguirlo; non aveva detto a Li Sing dove fosse diretta, né quando sarebbe tornata. Tutto questo era accaduto tre ore prima, e nessuno dei due aveva ancora fatto ritorno.

Un nero presagio di sciagura mi afferrò mentre ascoltavo il resoconto di Li Sing, e ben presto capii che Amberville aveva ceduto alla tentazione di una seconda visita notturna al prato maledetto.

Un'attrazione occulta era riuscita in qualche modo a sconfiggere l'orrore della sua prima esperienza, di qualunque cosa si fosse trattato.

Avis, che sapeva dove si sarebbe diretto, temendo per la sua sanità mentale (o piuttosto per la sua salvezza) era andata a cercarlo. Sentivo con sempre maggiore sicurezza che il pericolo li minacciava entrambi, un pericolo innominabile al cui potere, forse, avevano già ceduto.

Nonostante i dubbi e le esitazioni che avevo avuto fino a quel momento, ora non indugiai. Dopo pochi minuti di guida a rompicollo nella morbida luce della luna giunsi al confine della proprietà di Chapman, tra i pini.

Qui, come avevo già fatto la volta precedente, lasciai la macchina e mi precipitai a capofitto attraverso gli alberi.

Lontano, nella valletta, udii, mentre correvo, un singolo grido, acuto per il terrore.

Terminò bruscamente ma fui sicuro che si trattava della voce di Avis, che poi non sentii più.

Corsi disperatamente e uscii nel prato infossato: né Avis né Amberville erano in vista, e mi sembrò a un'occhiata veloce che il posto fosse denso di vapori che si muovevano e si attorcigliavano a spirale, e permettevano solo una visione parziale del salice morto e dell'altra vegetazione. Corsi verso lo stagno schiumante, e avvicinandomi fui colpito da un improvviso, duplice orrore.

Avis e Amberville galleggiavano insieme nell'acqua poco profonda, i corpi parzialmente nascosti dal mantello di alghe.

La ragazza era stretta tra le braccia del pittore, come se lui l'avesse trascinata contro la sua volontà a quell'orribile morte.

La faccia di lei era coperta dalla schiuma verdastra, mentre non potevo vedere quella di Amberville, che era reclinata contro la spalla. Sembrava che ci fosse stata una lotta: ma adesso entrambi erano immobili, perché avevano ceduto al loro destino.

Non fu solo questo spettacolo, tuttavia, che mi indusse a fuggire come un pazzo dalla valletta, senza fare nemmeno il più piccolo tentativo di recuperare i corpi annegati.

Il vero orrore stava nella cosa che, a distanza, avevo scambiato per spirali di nebbia.

Non era nebbia, né alcuna altra cosa che un uomo possa concepire: era un'emanazione maligna, pallida, luminosa che avvolgeva la scena davanti a me nelle febbrili propaggini del suo alone; una proiezione fantasma del pallido salice simile alla morte, degli ontani morenti, delle canne, lo stagno e le sue vittime suicide.

Il paesaggio era ancora visibile attraverso la proiezione, come visto nel filtro di una pellicola, ma sembrava concretizzarsi e materializzarsi sempre più, in un'attività che era innaturale e terribile.

Oltre questo ribollire, come prodotte dalle esalazioni dell'ambiente, vidi spiccare tre volti umani fatti dalla stessa nebulosa materia, né nebbia né plasma. Una delle facce pareva risaltare dal tronco del salice fantasma, la seconda e la terza affioravano tra la schiuma della palude irrisoria, i corpi che si trascinavano informi tra i rami impalpabili. Le facce erano di Chapman, di Francis Amberville e Avis Olcott.

Dietro quest'irreale proiezione di se stesso, il vero paesaggio rivelava la stessa aria infernale, vampiresca che avevo già conosciuto di giorno.

Ma ora sembrava che la valletta non fosse immota, che vibrasse di una vita segreta e malvagia, che si protendesse verso di me con le sue acque schiumanti, con le dita ossute dei suoi alberi, e le facce spettrali che aveva vomitato dal suo fondo letale.

Anche il terrore si paralizzò in me per un momento: rimasi a guardare, mentre la pallida, maledetta esalazione sorgeva più alta sul prato.

Le tre facce umane, attraverso un ulteriore agitarsi della massa fantasmagorica, cominciarono ad avvicinarsi l'una all'altra.

Lentamente, quasi impercettibilmente si fusero in una sola, e divennero un volto androgino, né vecchio né giovane, che infine si dissolse nei rami fantasma del salice: l'artiglio della morte vegetale, che si allungava nel tentativo di afferrarmi.

Incapace di sopportare lo spettacolo, cominciai a correre.

C'è ancora poco da raccontare, perché niente di ciò che potrei aggiungere scioglierebbe l'abominevole mistero: no, sarebbe impossibile. Il prato (o la cosa che ci abita) ha già preteso tre vittime.

Talvolta mi chiedo se ce ne sarà una quarta.

Solo io, sembra, tra tutti i viventi, ho capito il segreto che si nasconde dietro la morte di Chapman, di Avis e Amberville; nessun altro si è imbattuto nel genio maligno della valletta.

Non ci sono mai più tornato, tranne la mattina in cui il corpo dell'artista e quello della ragazza vennero ripescati dallo stagno, e non ho mai preso la decisione di distruggere o comunque di liberarmi dei quattro dipinti a olio e dei due abbozzi ad acquerello fatti da Amberville. 

E, forse, a dispetto di tutto ciò che mi trattiene, visiterò ancora quel luogo maledetto.


Fiera dei vinili e cd a Saronno (21 settembre 2025)

E finalmente, dopo "la pausa estiva", sono riprese le fiere dei vinili e cd! 

Sono stata a quella di Saronno! (il 7 settembre era a Lainate ma ahimè, per me impossibile da raggiungere 😢 mentre Saronno la raggiungo facilmente con due fermate da Castellanza) 

Purtroppo ho avuto qualche difficoltà in questi giorni 🥺 ma sono comunque riuscita a mettermi in viaggio per Saronno 🤘anche se l'evento top resta sempre Busto Arsizio (la fiera di Saronno è più piccolina e tiene quasi solo band Metal molto famose, anche se di tanto in tanto ravanando si trova qualche "band dimenticata" ma in generale se uno cercasse solo Black e Death Metal underground resterebbe deluso)

è sempre bello scambiare pareri e sorrisi con Metallari over 40 e 50enni che si sono praticamente visti "nascere passo dopo passo" band come gli Slayer o i Testament! 🤘 Ed è pure la cosa che mi piace di più di questi eventi, perché ritrovarsi a parlare con sconosciuti ma che riconosci "come fratelli Metallari" dalle t-shirt o dagli acquisti che fanno, ti fa vivere, dal vivo, la fratellanza e l'attitudine Metal 🤘 

Mi sono comprata i Dream Theater e gli Heimdall 🤘🖤 Chi se li ricorda? è subito nostalgia Power Metal! 🥹🖤🤘 

Questo loro album ("The Temple of Theil") uscì nel 1999 😍 🤘e se ricordo bene dovevano averli pubblicati anche sulle compilation di Psycho! (anche perché questo album fu accolto benissimo e infatti io non li ho mai dimenticati)

Sono davvero contenta di averli trovati visto che ci tengo ad avere tutte le band Power Metal del 1998-1999-2000 (mi mancano i Desdemona e i Pandaemonium, però) che furono tra le prime band Metal che conobbi. 🥹🖤🤘

Segnatevi le prossime fiere dei cd e vinili!

- 28 Settembre: Corbetta (a Villa Pagani)

- 5 Ottobre: Chiari (BS) al Circolo ADMR Rock Radio

Ancora da confermare (me le ha dette uno dei rivenditori lì presenti, a mo' di anteprima 😉)

- 19 Ottobre: Busto Arsizio (probabilmente sarà di nuovo al Museo del Tessile, ma vi farò sapere qualche giorno prima)

- 12 Ottobre: Carimate (città che non conosco, vediamo se riuscirò a saperne di più)


Nuovo album dei Paradise Lost: "Ascension"!

Visto che è uscito oggi (19 settembre 2025) sono corsa a Rho a comprare il nuovo album dei Paradise Lost! I due singoli usciti mesi fa mi erano piaciuti (e li avevo anche commentati qui https://deisepolcriecimiteri.blogspot.com/2025/07/serpent-on-cross-dei-paradise-lost-e-la.html), ma gli album ai Paradise Lost glieli compro quasi sempre sulla fiducia e "a scatola chiusa", perché non hanno mai fatto album orrendi (a parte "Host" che non c'entrava niente con il loro stile... e che difatti non ho 😒) 



Grande album, come anche "Medusa" (che è uno dei miei preferiti 💜), sempre con il loro inconfondibile "marchio di fabbrica Gothic Paradise Lostiano"... i Paradise Lost li conobbi sulle leggendarie compilation di Psycho! 😍, quando pubblicarono proprio "Gothic" come singolo ("classic track") su una delle loro compilation dove, ogni mese, presentavano questo o quel gruppo Metal (all'epoca Spotify e Youtube manco esistevano e l'unico modo per quelli della mia generazione di ascoltare band Metal era comprare Psycho! col cd in allegato o "appoggiarsi" a quelli più grandi di me che già avevano centinaia di album)... fu amore al primo ascolto 💜 anzi, in effetti mi pare di ricordare che musicalmente conobbi prima i Paradise Lost che non i My Dying Bride e gli Anathema (gli Anathema devo pure averli sentiti per ultimi! 😅) 

L'unica cosa che non mi piace di questo "Ascension" (ma vale anche per gli album precedenti) è la copertina (e il libretto, molto spartano e striminzito) 😖 e l'odioso logo "moderno asettico" 😵

quando il loro VERO logo originale (che non usano più ormai da anni 😭💔) era (è) tanto bello e così appropriato per la loro musica



Adesso me lo ascolterò più e più volte per "assimilarlo" in tutti i suoi aspetti e dettagli che ad un primo ascolto mi sono sfuggiti 😃