Nel pomeriggio d'una rigida giornata d'inverno, quando il sole tornò a brillare con fredda limpidezza dopo una lunga tempesta, due bambini chiesero alla mamma il permesso di correre fuori a giocare con la neve fresca.
La maggiore tra i due era una bimba che per la sua indole dolce e modesta e perché era considerata molto bella, i genitori e gli amici di casa solevano chiamare Violetta.
Ma suo fratello era noto col nomignolo di Papavero per il colorito acceso del visetto rotondo che faceva pensare alla luce del sole e a grandi fiori vermigli.
Bisogna sapere che il padre di questi due bambini, negoziante in ferramenta, era un uomo ottimo ma straordinariamente prosaico: su tutto quello che si presentava alla sua mente aveva l'abitudine tetragona di formarsi sempre l'opinione del cosiddetto buon senso. Con un cuore tenero come quasi ogni uomo, egli aveva una testa dura e impenetrabile e perciò, forse, vuota come una delle pentole di ferro che vendeva.
Nel carattere della madre, invece, vi era una vena di poesia, un tocco di bellezza ultraterrena: fiore delicato e rugiadoso sopravvissuto alla sua immaginosa giovinezza e che manteneva ancor vivo fra le realtà monotone del matrimonio e della maternità.
Violetta e Papavero, dunque, supplicarono la mamma di lasciarli correre fuori a giocare con la neve fresca; poiché, se cadendo giù dal cielo grigio era sembrata tanto lugubre e cupa, appariva così allegra ora che il sole la illuminava.
I due bambini abitavano in una città e per giocare non avevano altro terreno che un piccolo giardino davanti alla casa: lo separava dalla strada un muro bianco; un pero e due o tre susini lo ombreggiavano e alcuni cespi di rose crescevano proprio davanti alla finestra del salotto. Ma in quel tempo alberi e piante erano spogli e la neve leggera avviluppava i rami, formando così una specie di fogliamene invernale con un ghiacciolo pendulato qua e là a guisa di frutto.
"Sì, Violetta e mio piccolo Papavero", disse la madre affettuosa, "potete andare a giocare con la neve fresca."
La buona signora avvolse i suoi due tesori in corpetti di lana e giacche imbottite, mise loro una sciarpa, infilò ghette a righe in ogni paio di piccole gambe e grossi guanti di lana alle mani e diede loro un bacio per uno, quasi un talismano per tenere a distanza il Signor Gelo.
E i due bambini scapparono fuori di casa con una corsa e un salto che li portò subito nel bel mezzo di un gran mucchio di neve, da cui Violetta sbucò simile a un fringuello, mentre il piccolo Papavero ne uscì annaspando, col visetto rotondo tutto in fiamme.
Come si divertirono!
A guardarli scherzare nel giardino invernale, si sarebbe pensato che l'oscura e spietata tempesta fosse stata inviata solo per offrire a Violetta e Papavero un nuovo modo di divertirsi; e che essi, a loro volta, fossero creati, come gli uccelli della neve, per godere solo della tempesta e del candido manto che essa distende sulla terra.
Infine, quando si furono imbiancati a vicenda con manate di neve, Violetta, dopo aver riso di gusto per l'aspetto del piccolo Papavero, ebbe un'idea nuova.
"Sembri proprio un fantoccio di neve, Papavero", disse, "se però le tue guance non fossero così rosse. E mi fai venire un'idea! Facciamo un fantoccio con la neve: che rappresenti una bambina, e sarà la nostra sorella e correrà per il giardino e giocherà tutto l'inverno con noi. Non sarebbe carino?"
"Oh sì!", esclamò Papavero, parlando più distintamente che poteva, poiché era ancora piccolo.
"Sarà carino! E mamma la vedrà!"
"Sì", rispose Violetta. "Mamma vedrà la nuova bambina. Ma non dovrà farla entrare nel salotto caldo; perché, sai, alla nostra sorellina di neve il caldo non piacerà."
E immediatamente i bambini si accinsero alla grande impresa di fare un fantoccio di neve che corresse per il giardino; mentre la loro mamma, che sedeva presso la finestra e aveva udito in parte il loro discorso, non poté fare a meno di sorridere della serietà con cui si misero al lavoro.
Sembrava che credessero veramente di non trovare alcuna difficoltà nel fabbricare con la neve una bambina viva.
E, a dire il vero, se mai sia possibile operare miracoli, sarà mettendoci al lavoro proprio con quella semplicità e quella fede con cui Violetta e Papavero si accingevano a compierne uno, senza neanche sospettare che si trattasse di un miracolo.
Così pensava la madre; e pensava anche che la neve fresca, appena caduta dal cielo, sarebbe un eccellente materiale per creare esseri nuovi, se non fosse tanto fredda.
Il vedere all'opera quei due cari frugoli pieni di vita era una vera delizia! E poi, meravigliava davvero osservare con quanta accortezza e maestria se la cavavano nel loro lavoro.
Violetta aveva assunto la direzione e diceva a Papavero quel che doveva fare, mentre con le sue dita delicate modellava tutte le parti più difficili del fantoccio di neve. In realtà, non sembrava vero che la figura fosse modellata dai bambini, ma anzi che si formasse da sé sotto le loro mani, mentre essi vi giocavano intorno cinguettando. La madre ne fu molto sorpresa; e la sua sorpresa cresceva a mano a mano che seguiva il lavoro.
"Che bambini eccezionali sono i miei!", pensava, sorridendo d'orgoglio materno e sorridendo un po' anche di se stessa per essere tanto fiera di loro.
"Papavero, Papavero!", gridò Violetta al fratello, che era andato in un altro punto del giardino, "portami un po' di quella neve fresca laggiù in quel cantuccio più lontano, dove non l'abbiamo calpestata. Mi occorre per modellare il petto della nostra sorellina di neve. Sai: per il petto bisogna che sia purissima, proprio come è venuta giù dal cielo."
"Eccola, Violetta!", rispose Papavero, col suo tono brusco, ma pur sempre così dolce, mentre si avvicinava annaspando tra i mucchi di neve in parte calpestati.
"Ecco la neve per il suo pettuccio. Oh, Violetta! Come comincia a diventare bella!"
"Sì", fece Violetta, pensosa e calma; "la nostra sorellina di neve è molto carina. Non sapevo che saremmo riusciti a fare una bimba così carina."
Ascoltando i loro discorsi, la madre pensava che sarebbe stato proprio giusto e molto bello che fate o angioletti fossero scesi dal paradiso a giocare, invisibili, con i suoi due tesorini per aiutarli a fare il loro fantoccio di neve, dandogli le fattezze dell'infanzia celeste!
Violetta e Papavero non si sarebbero accorti dei loro immortali compagni di gioco: solo avrebbero veduto la figura divenire bellissima a mano a mano che essi vi lavoravano e l'avrebbero creduta tutta opera loro.
"Se mai i bambini mortali abbiano meritato simili compagni di gioco, sono i miei bambini!", si disse la madre; e di nuovo sorrise del suo orgoglio materno.
Ma l'idea si impossessò ugualmente della sua fantasia, e di quando in quando dava uno sguardo fuori dalla finestra, quasi immaginando di vedere bimbi del paradiso, dai riccioli d'oro, giocare con la sua Violetta e col suo Papavero.
Vi fu, per qualche momento, un mormorio indistinto delle due voci infantili.
"Papavero, Papavero!", gridò Violetta. "Portami quelle leggere ghirlande di neve che si sono posate sui rami più bassi del pero. Mi occorrono per fare i riccioli della nostra sorellina di neve!"
"Eccoli, Violetta!", rispose il bambino. "Com'è carina!"
"Non è un amore?", disse Violetta con tono soddisfatto; "e adesso ci vuole qualche pezzetto di ghiaccio lucido per fare gli occhi scintillanti. Ancora non è finita. Faremo vedere alla mamma com'è bella; ma papà dirà "Sciocchezze! Venite dentro che fa freddo."
"Chiamiamo la mamma perché si affacci", disse Papavero, e si mise a gridare allegramente: "Mamma! Mamma! Affacciati e guarda che bella bambina stiamo facendo!"
La madre posò il lavoro per un momento e si affacciò alla finestra.
Ma accadde che il sole - era uno dei giorni più corti dell'anno - era sceso così presso all'orizzonte, che la sua luce occidua giunse obliquamente agli occhi della signora.
Ella ne rimase abbagliata e non poté distinguere bene quel che si trovava nel giardino.
Pure, fra tutto il vivo, accecante barbaglio del sole e della neve fresca, ella vide una figurina bianca che sembrava imitare a meraviglia le fattezze umane.
E vide Violetta e Papavero, li vide ancora al lavoro: Papavero che portava altra neve e Violetta che l'applicava alla figura con tutta l'arte di uno scultore che aggiunge creta al suo modello; la madre pensò tra sé che mai vi era stato prima un fantoccio foggiato con tanta abilità.
Tornò al suo lavoro e si affrettò quanto più possibile: il crepuscolo era vicino e il vestito di Papavero non era ancora finito.
Anche i bambini in giardino continuavano a lavorare attivamente; la madre si divertiva ad osservare come la loro piccola fantasia fosse stata presa dal lavoro e ne fosse trascinata: sembravano credere veramente che la bambina di neve avrebbe corso per il giardino e giocato con loro.
"Che compagna carina che avremo per giocarci insieme tutto l'inverno! Non le vorrai molto bene, Papavero?", disse Violetta.
"Oh sì. E l'abbraccerò stretta, e si siederà vicino a me e berrà un po' del mio latte caldo!"
"Oh no, Papavero!", rispose Violetta con saggia gravità. "Il latte caldo non farebbe bene alla nostra sorellina di neve. I bambini di neve come lei non mangiano che ghiaccioli. No, no, Papavero, non bisogna darle nulla di caldo da bere."
Vi fu un breve intervallo di silenzio poiché Papavero, le cui gambette non si stancavano mai, era andato di nuovo in pellegrinaggio all'altro capo del giardino.
Ad un tratto Violetta gridò tutta allegra: "Guarda, Papavero! Vieni presto! Un riflesso di quella nuvola rosa le ha illuminato le guance, e ora non va più via! Non è bello?"
"Sì, è bel-lo", rispose Papavero, sillabando la parola con aria riflessiva. "Oh Violetta, ma guarda i capelli! Sono come l'oro!"
"Oh cero", fece Violetta tranquillamente, come se fosse una cosa naturale.
"Sai, quel colore viene dalle nuvole dorate che si vedono lassù nel cielo. è quasi finito, ormai. Ma bisogna farle le labbra rosse, più rosse delle guance. Forse, Papavero, diventeranno rosse se noi due le baciamo!"
E la madre udì due piccoli schiocchi vivaci, come se i suoi bambini stessero baciando il fantoccio di neve sulle labbra gelide.
Ma parve che questo non rendesse le labbra della sorellina di neve abbastanza rosse e Violetta propose d'invitarla a baciare a sua volta la guancia vermiglia di Papavero.
"Su, sorellina di neve, dammi un bacio", esclamò Papavero.
"Ecco! ti ha baciato", concluse Violetta, "e ora le sue labbra sono proprio rosse. Ed è anche un po' più colorita!"
"Oh, che bacio freddo!", esclamò Papavero.
Proprio allora una folata del puro vento di ponente passò sul giardino facendo tremare le finestre del salotto e diede un tale senso di gelido inverno che la madre fu sul punto di battere il vetro col dito in cui era infilato il ditale per ordinare ai bambini di rientrare in casa, quando entrambi la chiamarono; sembravano rallegrarsi di un qualche avvenimento che si fosse verificato allora, ma su cui avevano contato fin dal principio.
"Mamma, mamma! Abbiamo finito la nostra sorellina di neve e ora corre per il giardino con noi!"
"Che piccini pieni di fantasia sono i miei bambini!", pensò la madre mentre metteva gli ultimi punti all'abito di Papavero.
"E, quel che è più strano, mi fanno quasi diventare una bambina come loro! Per poco, non posso fare a meno di credere che il fantoccio di neve sia animato!"
Il sole era ormai scomparso dal cielo, lasciando però dietro a sé un ricco retaggio del suo splendore tra quelle nuvole purpuree e dorate che rendono così sontuosi i tramonti invernali.
La buona signora poté guardare nel giardino e vedervi Violetta e Papavero. Ma cosa vide oltre loro? Ebbene, se mi credete, vi era la figuretta esile di una bambina, tutta vestita di bianco, con le guance rosee e i riccioli color d'oro che giocava per il giardino con i due bimbi.
La madre pensò che di certo doveva trattarsi della figlia di uno dei vicini: vedendo Violetta e Papavero in giardino, la piccina doveva aver attraversato la strada per giocare con loro.
E la buona signora andò alla porta di casa, pensando di invitare la piccola nel suo tiepido salotto, poiché calato ormai il sole, l'aria fuori di casa si stava già facendo molto fredda.
Ma, aperta la porta, si fermò un istante sulla soglia, incerta se invitare la bambina ad entrare e perfino se dovesse parlarle.
Anzi, fu quasi in dubbio se fosse proprio una bambina vera o solo una ghirlanda leggera di neve fresca portata qua e là per il giardino dal gelido ponente.
Fra tutti i bambini del vicinato, la signora non riusciva a ricordare quel volto, col suo puro candore, con quella delicata tinta rosea. E in quanto al vestito, che era tutto bianco e palpitava al vento, nessuna donna ragionevole l'avrebbe messo ad una bambina, per mandarla fuori a giocare nel cuore dell'inverno.
Ma per quanto etereo il suo abito fosse, la bambina non soffriva affatto il freddo e danzava sulla neve con tanta leggerezza che la punta dei suoi piedini quasi non vi lasciava orma, mentre Violetta riusciva appena a starle alla pari e Papavero, con le sue gambette corte, era costretto a rimanere indietro.
Ad un tratto durante il gioco, la strana bambina si mise tra Violetta e Papavero e, prendendoli per mano, venne avanti con loro, saltellando allegramente. Ma quasi subito Papavero tirò via la sua manina e cominciò a stropicciarsela come se le dita gli formicolassero dal freddo mentre anche Violetta si liberava, dicendo che era meglio non prendersi per mano.
La damigella in abito bianco non pronunciò parola e continuò a danzare allegramente come prima.
Se Violetta e Papavero non volevano giocare con lei, ella avrebbe trovato un ottimo compagno di giochi nel ponente vigoroso e freddo che continuava a spingerla qua e là per il giardino.
La madre intanto rimaneva sulla soglia, domandandosi come potesse una bambina somigliare tanto a un mulinello di neve o come un mulinello di neve potesse somigliare tanto a una bambina.
Chiamò Violetta e le parlò a bassa voce: "Violetta, come si chiama quella bambina? Abita vicino a noi?"
"Come, mamma cara", rispose Violetta ridendo all'idea che la madre non riuscisse a comprendere una cosa tanto semplice, "questa è la nostra sorellina di neve che abbiamo fatto ora!"
In quel momento uno stormo di uccelli scese volteggiando per l'aria. Com'era naturale, evitarono Violetta e Papavero ma - e questo parve strano - volarono subito verso la bambina dall'abito bianco, aleggiarono ansiosi intorno al suo capo, si posarono sulle sue spalle e sembrarono trattarla come una vecchia conoscenza.
Da parte sua, ella parve contenta di vedere quegli uccelletti.
Violetta e Papavero ridevano del grazioso spettacolo.
"Violetta", disse la madre molto perplessa, "dimmi la verità, senza scherzare. Chi è quella bambina?"
"Ma cara mamma, ti ho detto la verità: è il fantoccio di neve che abbiamo fatto Papavero ed io. Anche Papavero te lo potrà confermare."
Mentre la mamma era ancora esitante su quel che dovesse pensare e dovesse fare, il cancello d'ingresso del giardino si spalancò e il padre di Violetta e di Papavero entrò avvolto in un ampio cappotto di lana blu, con un berretto di pelliccia che gli copriva gli orecchi ed enormi guanti alle mani.
Il signor Lindsey era un uomo di mezza età con un'espressione stanca eppure allegra sul volto arrossato dal vento e dal gelo.
Alla vista della moglie e dei bambini gli occhi gli si illuminarono; subito scorse la piccola estranea candida che correva qua e là per il giardino come una danzante ghirlanda di neve.
"Chi è mai quella bambina? La madre deve essere certamente matta per lasciarla uscire in una giornata rigida come è stata oggi con quel leggero abitino bianco e quelle pantofoline."
"Mio caro", rispose la moglie, "su quella bambina ne so quanto te. Suppongo sia figlia di qualche vicino. Violetta e Papavero insistono che essa è solo un fantoccio di neve che per quasi tutto il pomeriggio sono stati occupati a fabbricare qui nel giardino."
Nel dir questo, la madre gettò un'occhiata verso il punto dove i bambini avevano fatto il loro fantoccio di neve, e quale fu la sua sorpresa nel vedere che di tanta fatica non rimaneva più la minima traccia! Nessun mucchio di neve, nulla!, all'infuori delle impronte di piccoli passi intorno ad uno spazio vuoto.
"Papà caro, non capisci? Questo è il nostro fantoccio di neve, che Papavero ed io abbiamo fatto perché volevamo un altro compagno per giocare. Non è vero, Papavero?"
"Sì papà", disse il vermiglio Papavero. "Questa è la nostra sorellina di neve, non è bella?"
"Che sciocchezze, bambini!", esclamò l'ottimo e onesto padre che considerava tutte le cose secondo il suo buon senso.
"Andiamo, questa piccola estranea non deve rimanere fuori all'aria rigida un minuto di più. La porteremo nel salotto e le darai una cena di latte caldo col pane. Intanto io mi informerò dai vicini e se sarà necessario manderò il banditore per le strade per dare avviso di una bambina smarrita."
Così dicendo, il brav'uomo pieno di buon cuore si avviò verso la piccola damigella bianca con le migliori intenzioni del mondo.
Ma Violetta e Papavero afferrando ognuno la mano del padre, lo supplicarono ansiosamente di non farla entrare in casa.
"Papà, questa è la nostra bambina di neve! Non può vivere se non respira il vento freddo. Non farla entrare nella stanza calda!"
"Sì, papà", gridò Papavero battendo il piedino in terra, "è la nostra bambina di neve! Non le piacerà il fuoco caldo!"
"Sciocchezze, bambini!", esclamò il padre, in parte infastidito e in parte ridendo di quella che considerava la loro ridicola ostinazione.
"Marito mio!", intervenne a bassa voce la moglie che aveva osservato più da vicino la bambina di neve ed era più perplessa che mai, "vi è qualcosa di molto strano in tutto ciò. Mi giudicherai sciocca... ma... non può essere che qualche invisibile angelo sia stato attirato dalla semplicità e dalla buona fede con cui i nostri bambini si sono messi all'opera? E ne è risultato un miracolo. No, non ridere di me; capisco anch'io che è un'idea sciocca!"
"Mia cara", rispose il marito ridendo di cuore, "sei ancora una bambina come Violetta e Papavero."
Ma ora il premuroso signor Lindsey si era avanzato nel giardino; al suo approssimarsi gli uccelli presero il volo e anche la piccola damigella bianca si ritrasse scuotendo il capo, quasi per dire "Non mi toccate, ve ne prego!", attirando l'inseguitore dove la neve era più alta.
Una volta il buon uomo inciampò e cadde bocconi e nel rialzarsi, con la neve attaccata alla ruvida stoffa del cappotto, parve bianco e gelido come un enorme fantoccio di neve.
E intanto alcuni vicini, vedendolo dalla finestra, si domandarono che cosa gli avesse preso nel correre così nel giardino dietro a un mulinello di neve che il vento spingeva qua e là.
Finalmente, dopo molta fatica, egli riuscì a cacciare la piccola estranea in un angolo donde non poteva assolutamente sfuggirgli.
Era quasi sera, e la moglie, che stava a guardare, fu colpita nel vedere che la bambina di neve luceva e scintillava e sembrava diffondere intorno a sé un alone luminoso; ed era uno scintillio freddo, come di un ghiacciolo sotto la luna. Trovò strano che suo marito non vedesse nulla di notevole nell'aspetto della bambina di neve.
"Vieni qua, strana bambina! Ti ho preso, finalmente!", esclamò il buon uomo prendendola per mano, "e ti farò star bene tuo malgrado! Metteremo un bel paio di calze di lana calda sui tuoi piedini gelati, e avrai un bello scialle pesante per avvolgerti. Vieni dentro."
E col più benevolo dei sorrisi sul volto perspicace, tutto rosso dal freddo, quell'uomo bene intenzionato prese per mano la bambina di neve e la condusse verso la casa.
Ella lo seguì avvilita e di mala voglia: tutto lo scintillio e lo splendore era scomparso dalla sua figura: se poco prima somigliava ad una sera limpida, gelida ed ingemmata di stelle, con un riflesso purpureo sul freddo orizzonte, ora appariva opaca e languida come il disgelo.
Mentre il buon signore Lindsey la conduceva su per i gradini della soglia, Violetta e Papavero con gli occhi pieni di lacrime che si congelavano prima di scendere giù per le guance, lo guardarono in viso e di nuovo supplicarono il padre di non portare in casa la bambina di neve.
"Non portarla dentro!" esclamò il buon uomo. "Ma sei pazza, mia piccola Violetta! è già così fredda che la sua mano ha quasi gelato la mia, pur con i miei grossi guanti. Volete che muoia assiderata?"
Mentre egli saliva i gradini, la moglie aveva dato un altro lungo sguardo, attento e quasi timoroso, alla piccola estranea candida. Non sapeva neppur lei se fosse un sogno, ma le parve di vedere sul collo della piccina l'impronta delicata delle dita di Violetta. Sembrava proprio che nel modellare la figura, Violetta avesse dato un leggero colpetto con la mano, e avesse poi dimenticato di levigare del tutto la traccia.
"Dopotutto, marito mio", disse la madre, "somiglia in modo strano ad una figura di neve! Io ci credo che sia fatta di neve!"
Una folata del vento di ponente investì la bambina che di nuovo rifulse come una stella.
"Non c'è da meravigliarsi che sembri fatta di neve! è mezza assiderata, povera piccina!", rispose il buon signor Lindsey.
Senza altri discorsi e animato sempre dalle migliori intenzioni, quell'individuo pieno di benevolenza e buon senso condusse la candida damigella, avvilita, sempre più avvilita, al riparo dall'aria gelida, nel suo confortevole salotto.
Una stufa diffondeva un vivo riflesso attraverso il finestrino di mica nello sportello di ferro e faceva fumare e ribollire l'acqua del vaso posatovi sopra.
Un odore caldo e opprimente dilagava per tutta la stanza.
Il salotto, parato di tende rosse alle finestre e con un tappeto di eguale colore, sembrava caldo anche all'apparenza.
Oh, era proprio il luogo migliore per la piccola sconosciuta!
L'uomo di buon senso mise la bambina di neve sul tappeto proprio dinanzi alla stufa che fumava.
"Ora starà bene!" esclamò il signor Lindsey. "Fa come se fossi a casa tua, cara bambina!"
La piccola damigella bianca aveva un'aria triste e avvilita, mentre se ne stava in piedi sul tappeto, investita dal soffio caldo della stufa come da una pestilenza.
Una volta gettò un'occhiata di nostalgia alle finestre e attraverso le tende rosse intravide i tetti coperti di neve, le stelle che brillavano gelide e tutta la deliziosa intensità della notte fredda.
Il vento rigido tamburellava sui vetri, quasi invitandola ad uscire fuori.
Invece la bambina di neve rimaneva avvilita dinanzi alla stufa calda.
Ma per l'uomo di buon senso tutto procedeva bene.
"Mettile subito un bel paio di calze grosse e uno scialle di lana o una coperta e di' a Dora di darle un po' di cena calda appena il latte bolle", disse alla moglie.
"E voi, Violetta e Papavero, fate divertire la vostra amichetta: vedete come è malinconica perché si trova in una casa estranea. Quanto a me, farò un giro tra i vicini per rintracciare la sua famiglia."
La madre, intanto, era andata alla ricerca di uno scialle e delle calze: per quanto fine e delicato, il suo modo di considerare il fatto aveva ceduto, come sempre, all'ostinato realismo del marito.
Senza badare alla rimostranze dei figli, il buon signor Lindsey si avviò chiudendosi con cura alle spalle la porta del salotto. Rialzò il bavero del cappotto fin sulle orecchie e uscì dalla casa; ma era appena arrivato al cancello del giardino che fu richiamato dalle grida di Violetta e Papavero e dai colpi battuti col ditale sulla finestra del salotto.
"Marito, non occorre andare in cerca dei genitori della bambina!", gridava la signora.
"Te l'avevamo detto, papà!", gridarono Violetta e Papavero appena egli fu rientrato nel salotto.
"Hai voluto portarla dentro: e adesso la nostra sorellina di neve si è liquefatta!"
E i loro visini erano già sciolti in lacrime, tanto che il loro papà, vedendo quali strane cose accadono talvolta in questo prosaico mondo, ebbe una gran paura che anche i suoi due bambini potessero liquefarsi!
Al colmo della perplessità, chiese spiegazioni alla moglie, ma ella poté dirgli soltanto che, richiamata in salotto dalle grida di Violetta e Papavero, non aveva trovato altre tracce della bambina bianca, se non i resti di un mucchio di neve, che, davanti ai suoi occhi, si erano liquefatti interamente sul tappeto.
"Ed ecco lì tutto quel che rimane!", aggiunse indicando una pozza d'acqua dinanzi alla stufa.
"Sì, papà!", confermò Violetta, guardandolo con aria di rimprovero, attraverso le lacrime. "Ecco tutto quello che rimane della nostra sorellina di neve!"
"Cattivo, papà!", gridò Papavero, battendo il piede in terra e, tremo a dirlo, scuotendo il pugno verso l'uomo di buon senso.
"Ti avevamo detto che sarebbe accaduto! Perché hai voluto portarla in casa?"
E la stufa, attraverso il finestrino di mica nello sportello di ferro, sembrava fissare il buon signor Lindsey, come un demonio dagli occhi di fuoco, trionfante per il male che aveva commesso!
Questo, direte voi, fu uno dei rari casi che pur talvolta accadono, in cui il buon senso ha torto.
L'insolito racconto della bambina di neve, pur se sembri cosa puerile a quelle specie di sagaci persone cui appartiene il signor Lindsey, si presta nondimeno per trarne in vari modi una morale a tutta loro edificazione.
Una delle sue lezioni, per esempio, potrebbe essere che è dovere degli uomini e specialmente degli uomini benevoli, considerare bene le cose cui si accingono e, prima di agire per i loro filantropici fini, essere ben sicuri di comprendere la natura e tutte le relazioni di quel che hanno per le mani.
Ciò che è assodato come un elemento di bene per un essere, può riuscire assolutamente dannoso per un altro; così il calore del salotto si confaceva abbastanza a bambini di carne e ossa quali Violetta e Papavero; sebbene non fosse affatto molto salubre neanche per loro, e invece comportava addirittura l'annientamento per la sfortunata bambina di neve.
Ma, infine, non vi è nulla da insegnare ad uomini saggi dello stampo del signor Lindsey.
Sanno tutto, oh certo! tutto ciò che è stato e tutto ciò che è e tutto ciò che, per ogni possibilità futura, debba essere.
E se qualche fenomeno della natura o della Provvidenza dovesse trascendere il loro modo di pensare, essi non lo ammetterebbero mai.
"Moglie", disse infatti il signor Lindsey, "guarda quanta neve hanno portato a casa i bambini attaccata alle scarpe! Ha formato una vera pozzanghera, qui davanti alla stufa. Ti prego, di' a Dora di portare degli stracci e di asciugarla!"








